giovedì 31 gennaio 2019

C'è bisogno di bellezza!


Quando si viaggia un po', capita di trovarsi a bere qualcosa seduto all'esterno di un bar in una piazza. Magari la piazza non è in ZTL, quindi c'è il rumore del traffico che la attraversa. Magari i bar sono più di uno, ed ognuno di essi offre agli avventori la propria musica. Quindi abbiamo il traffico, le 4 musiche diverse e la gente che parla a voce alta per sovrastare entrambi i rumori. 
Questo mi sembra spesso diventato il mondo dei social, soprattutto negli ultimi mesi. 
Personalmente ho individuato almeno 3 fonti di rumore. 


In primo luogo internet dà la possibilità potenzialmente a tutti di esternare la propria opinione: medicina, chirurgia, ingegneria, economia, diplomazia, costituzione, diritto non sono più materie riservate a medici, chirurghi, ingegneri, giuristi e, tra questi,le situazioni più delicate ai più esperti. Rimasi colpito, anni fa, da un gruppo di commentatrici che attaccavano il fidanzato di una vittima del Bataclan, confutandone la versione riportata dal titolo ANSA “è spirata tra le mie braccia”: oggetto del contendere era “come ha fatto a morire tra le sue braccia, se è stata trovata in un ospedale”. Mi colpì l'assoluta indelicatezza con cui accusavano il fidanzato di raccontare frottole. Nel loro sacro fuoco della verità, non si ponevano il problema che, durante un funerale, non sta bene mettersi a sindacare sul colore dei fiori o sull'omelia. Può sembrare un problema da poco, quando si pensa che nelle facoltà di medicina verranno formati medici seri da medici seri e competenti, e i medici scarsi saranno un errore casuale inevitabile, statisticamente parlando, idem per gli ingegneri e per gli avvocati. Eppure sconcerta pensare come certe parole perdano di significato, o vengano sdoganate nei contesti più dannosi proprio perchè le persone non sanno usarle correttamente, o non sanno dosarle. Da qui la mancata distinzione tra migrante e clandestino, o una distinzione totalmente arbitraria. Ecco quindi che un politico che compie una determinata azione di protesta o di garanzia dei diritti umani diventa un “traditore della patria” perchè in quel determinato momento si occupa di uno straniero sul suolo italiano e non degli italiani in difficoltà. Tutto questo senza pensare a quali pulsioni possa scatenare la parola “traditore” in un paese e in una società che da tempo è in cerca di un'identità e difficilmente è disposta a cambiare il paradigma della propria esistenza ferocemente individualista.

Da questa prima fonte di rumore, scaturisce la seconda: la perdita del comune senso del pudore riguardo la propria ignoranza (non so, dunque mi fido di chi ne sa di più) porta a sentirsi onnipotenti, come un adolescente che inizia a sentirsi grande, fa pensieri profondi ma ancora fa le superiori e la sua massima idea di indipendenza è la patente A1. Complice il non vedere fisicamente l'interlocutore, si arriva a livelli di inciviltà che a volte fatico ad accettare. 
Solo questa mattina mi sono imbattuto in un tizio che ci accusava, “soprattutto le donne” di stare sotto il suo commento a “vomitare empatia”. La cosa preoccupante è che si vantava di essere laureato: questo tipo di commenti è per me la dimostrazione del fallimento dell'università, della società e secondo alcuni, pure dell'evoluzione. Secondo alcuni studiosi, infatti, narcisisti e sociopatici (privi di empatia per definizione) servono alla conservazione della specie. 
Un altro, sotto ad un post che descriveva la vicenda di un giovane studente suicidatosi per essere stato espulso dal paese, recitava “se si è suicidato è solo colpa sua”.

Questo per non accennare ai commenti che parlano di giovani palestrati anche di fronte alle storie di madri e bambini, di fotomontaggi davanti alle foto di bambini morti, di “cibo sano” a riguardo di 4 crocchette di pesce e due piselli lessi, di “stanno bene al caldo” a fronte di decine di persone ammassate sul ponte di una nave in pieno inverno. Mi domando se queste affermazioni derivino da una ferma volontà di negare una realtà che fa male e fa sentire in colpa, o da semplice ignoranza e incapacità di osservazione.

A tutto questo si aggiungono le bufale, sinonimo italiano di fake news: a volte hanno un chiaro intento scherzoso: foto di Spike Lee, Samuel L. Jackson, Pietro Pacciani con commenti che invitano alla condivisione denunciando scandali e facendoli passare per poveri pensionati o artigiani vessati, o personaggi già morti (Kurt Kobain, Jim Morrison) che annunciano azioni di protesta contro il governo; a volte sono foto palesemente false, come quella che ritrae un campo profughi in Libano coperto di neve, e la denuncia che il governo (o più spesso il PD) non fa nulla per le zone terremotate (sulla differenza tra le colpe del PD reali e le colpe del PD percepite farò un post a parte, promesso); altre volte sono notizie completamente false e diffamatorie: la sorella di Laura Boldrini -morta anni fa- che gestisce 400 cooperative per clandestini; la cognata del cugino di Renzi che viene assunta come portaborse a 12.000 euro al mese. È chiaro che nessuno di questi sa come funzionano queste cooperative, o qual è il ruolo e il costo di un portaborse, eppure ci si sente in dovere - diritto di dire la propria su ogni chiacchiera di corridoio che si intercetta. 

Queste prime due fonti di rumore sono accomunate da una caratteristica: un lessico poverissimo e una capacità di argomentare ancora più povera: fotomontaggio, rosicare, pidiota, buonista, radical chic, Rolex, clandestini...

Per inciso, non volevo parlare di immigrati, ma sono lo specchio più evidente della situazione in cui ci troviamo. C'è da dire anche che sono degli anni che alcuni tg martellano subdolamente sul problema sicurezza, con dovizia di particolari su furti, omicidi, attentati, disastri naturali, scenari futuri preoccupanti. Magari subito uno non se ne accorge, il prodotto è confezionato in modo accattivante dopo un gioco a premi divertente e giorno dopo giorno il malcapitato spettatore si crede immerso in un mondo orribile, popolato solo di ladri, truffatori, gente spietata e inefficienze.


Infine, c'è la parte “buona”. Quella a cui piace ragionare. Quella che in politica si situerebbe nel settore dei progressisti. Quella che si lacera dall'interno a forza di confrontarsi tra colleghi. Quella che ora è in minoranza, o forse no. Quella che secondo me è in maggioranza ma non riesce ad unirsi. 
Ecco, per tentare di unirsi si potrebbe iniziare a fare una cosa: evitare di scendere nel loro campo. Chi vota gli avversari non è “ritardato”, “mongoloide” o “minus habens”. È incazzato con te, caro medioprogressista, perchè segui le politiche dei conservatori sperando nell'elemosina di qualche voto dai vicini di casa. E attaccandolo con la tua frustrazione a suon di insulti lo convinci di essere nel giusto, causando da solo la prossima catena con una foto di un Balotelli clandestino che se la spassa in hotel e si lamenta per il wi-fi.



mercoledì 28 novembre 2018

L'albero di Natale: tradizione senza troppi rischi ambientali



Ogni anno, al principio dell’avvento, mi immagino il meme con un tizio annoiato e la didascalia: “la tua faccia quando si avvicina Natale, e tu leggi l’ennesimo appello a non tagliare abeti”. 
Eppure non c’è cosa che, in tempo di Natale, avvampi gli animi come questi appelli ad evitare deforestazioni e perdite di suolo che... non ci sono. 
Sarebbe interessante verificare se il sentire comune verso la “strage di alberi” sia effettivamente retaggio dell’ancestrale legame uomo-natura, o non sia piuttosto il frutto di campagne contro un non meglio specificato “disboscamento”, mirate, più che ad una campagna di sensibilizzazione sull’utilità del patrimonio forestale, a far presa sull’emotività del target con immagini di indigeni e fauna sofferenti in amazzonia, aree disboscate selvaggiamente ove l’illegalità è diffusa, o addirittura tagli a raso in boschi cedui (laddove il taglio raso è una normale ed ancestrale pratica selvicolturale), o immagini di foreste attraversate dal fuoco: tutte queste immagini, pur da condannare per chiunque sia dotato di un minimo di buonsenso, hanno il difetto che sensibilizzano sui problemi del settore, ma non illuminano sulla corretta gestione del settore stesso. È lo stesso discorso che sta alla base di gran parte dell’opposizione alla caccia: se è vero che spesso molti cacciatori commettono delle violazioni alla normativa con qualche capo abbattuto di frodo, è pur vero che tra l’avere nel piatto un cervo o un filetto di manzo, sempre di un animale morto si tratta: si tratta di domandarsi se faccia più danni l’allevamento intensivo o la caccia, e quale dei due animali soffra meno. A meno che il critico non sia vegano. 

L’albero di natale da dove viene? 

Si tratta di una tradizione che trae origine dagli antichi culti pagani: nei giorni più corti dell’anno si usava esorcizzare la paura che le tenebre sarebbero durate per sempre, e che il sole non sarebbe “ri-sorto” accendendo luci e luminarie e addobbando gli alberi con dolciumi e alimenti. Con l’avvento del cristianesimo la tradizione è rimasta, affiancata alla rappresentazione della nascita del Messia. 
Fino a poche decine di anni fa, poco prima dell’Avvento, uno degli uomini di casa se ne andava per i boschi con la sega e l’accetta, trovava un albero giusto, lo segava e lo portava a casa assieme ad un po’ di vischio, pianta parassita di pini e querce, considerata di buon auspicio per il nuovo anno. Con i giusti accorgimenti lo si poteva riutilizzare per qualche anno, inverno dopo inverno. Ricordo che quando arrivava il momento, mio papà andava a prenderlo direttamente alla caserma della forestale per pochi soldi. Questi abeti (sia quelli del bisnonno che quelli di mio padre, che quelli comprati oggi) incidevano o incidono sulla deforestazione in italia? No, e non perché se ne taglino pochi: gli abeti tagliati che si utilizzano come alberi di Natale sono frutto o di diradamento, o di coltivazione. 
Il diradamento è un’operazione silvicolturale per cui le piante vengono selezionate al fine di favorire quelle che daranno un legno di qualità maggiore. Dunque sono alberi che finirebbero comunque bruciati in un caminetto, in una stufa o in una caldaia. 
Esistono, altresì, coltivazioni di alberi (Picea abies e Abies alba per quanto riguarda le varietà diffuse naturalmente sul territorio italiano, Picea pungens, Abies normanniana e altre per quanto riguarda le varietà provenienti dall’estero o cultivar ornamentali) che, al pari di una coltivazione di mais o di tulipani, al termine del ciclo produttivo di 5 o 6 anni o più, danno come prodotto un alberello da tagliare e decorare a piacere. Dunque un albero di natale reciso in casa non sarebbe molto diverso da un mazzo di fiori o da un pacco di polenta. Il problema riguarderà, in qualche caso, lo smaltimento, ma questa parte verrà trattata dopo. 

E gli alberi di Natale come quelli delle grandi città, alti decine di metri? 

Nulla di molto diverso rispetto a quelli diradati. A volte gli stessi alberi frutto di diradamento sono alti una decina di metri o più (sono cose che ho studiato molti anni fa e fatico a ricordare, se scrivo qualche stupidaggine segnalatemelo), oppure si tratta di alberi che verrebbero tagliati di lì a poco per le raggiunte dimensioni di utilizzo / scadenza del turno. 
Si può forse questionare per il fatto che piuttosto di tagliare un albero per coprirlo di luci e palline è meglio tagliarlo per farci travi e mobilio di pregio… ma chi ci assicura che il legno dell’albero non sia della qualità giusta per… bruciare e basta? O non venga utilizzato per farci tovaglioli? 

Quale soluzione è la più ecologica? 

Se è vero che in un condominio in centro a Milano l’albero di Natale tagliato difficilmente si riesce a conservare per gli anni successivi, è anche vero che l’albero di plastica, pur essendo riutilizzabile teoricamente all’infinito (il mio ha 25 anni), viene prodotto con materiali (petrolio, ferro) molto più inquinanti di una motosega. Conviene quindi prendere l’albero di plastica solo qualora ci si impegni ad usarlo per almeno una trentina d’anni, anche se con il tempo si spelacchia un po’. 
Un albero di Natale reciso, tuttavia, presenta il problema dello smaltimento: chi non possiede un caminetto o che come me è privo di doti artistiche, rischia di dover buttare nello sfalcio un sacco di legna buona da ardere o lavorare. Legna che quindi finirà alla meglio in un impianto di compostaggio, alla peggio in una discarica o in inceneritore. 
Resta una terza alternativa, l’albero vivo in vaso: in questo caso dobbiamo impegnarci ad apprendere l’arte del Bonsai, o ad andare a piantarlo in un bosco alpino in aprile o maggio, una volta passato il rischio gelate, possibilmente al limitare del bosco o in una radura. Resta sempre valida l’opzione ornamentale nel giardino di casa, se ne possediamo uno, ma si rischia, dopo poche decine di anni, di trovarsi con un bestione di 20 metri che toglie luce alla casa, spesso fuori areale e quindi un po’ sofferente. 

In una civiltà basata principalmente sui consumi -qual è la nostra- anche una cosa banale quale l’utilizzo di un albero per ravvivare le tradizioni natalizie dovrebbe essere ponderata attentamente, senza tuttavia farsi prendere da ansie eccessive sul futuro del pianeta o da troppi sensi di colpa sul diritto ad esistere dell’albero come soggetto portatore di diritti: problemi che si fanno in pochi quando si tratta di travi o mobilio.

Foto tratta da http://www.avvenire.it

martedì 27 novembre 2018

Sotto stretta osservazione: critica ragionata ad Alessandro Di Battista.*

Quando in prima media mi confrontai per la prima volta con il tema d’italiano, la valutazione fu “appena appena sufficiente”. Proprio così, “appena appena”. Non riuscivo a spiegarmi il perché: avevo scritto tanto, tante cose e senza troppi scarabocchi sul foglio. Mi venne spiegato (da prof, mamma e zia) che non basta scrivere tanto: bisogna spiegare ciò che si scrive, o lo scritto resta una casa senza fondamenta, costruita per aria.
Da allora in avanti questo insegnamento fu un caposaldo del mio scrivere. Non basta scrivere “non frequento il circolo Sigismondo Aristidi perché gira brutta gente”, devo scrivere cosa si fa al circolo, e perché la “gente” è “brutta”. La professoressa suscitava terrore nella classe, in molti ancora oggi si rabbuiano nel ricordarla. Per quanto mi riguarda, le sarò sempre grato per avermi insegnato a scrivere bene. 
Più avanti, all’università, il prof. Davide Matteo Pettenella apriva ogni capitolo delle sue dispense di estimo con una citazione storica: “Un insieme di dati non fanno una ricerca così come un mucchio di pietre non fanno una casa”; “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Un capitolo particolarmente ostico iniziava con un incoraggiante “Non comprenderai esaurientemente un concetto fino a che non sarai in grado di spiegarlo a tua nonna”: seconda massima fatta mia. 

Credo di scrivere bene. Almeno, credo di scrivere meglio di tanta gente pagata per farlo. Soprattutto, mi impegno ogni volta a non scrivere insulti, frecciatine, ad evitare i paroloni altisonanti. 
Mentre iniziavo a raccogliere qualche dato e facevo qualche osservazione, incappavo in questo articolo di forbes: https://forbes.it/2018/07/02/te-la-do-io-la-silicon-valley-perche-leggere-i-reportage-di-di-battista/


“A un certo punto Di Battista scrive: “[C]’è anche molta disperazione e questa ti spinge o a non accettare aiuti o a utilizzarli per la droga. Nel Tenderloin c’è chi baratta i generi alimentari ottenuti grazie al governo con un po’ di metanfetamina. E c’è chi preferisce dormire in strada, pur avendo i dollari necessari per un tetto, per potersi fare ancor di più”. “Ma anche questa è un’opinione”, dice Paura, che da cinque anni lavora negli Stati Uniti. “Non ci sono dati, fatti, elementi per sostenere un pensiero così banale sul tema della droga e sull’emergenza abitativa di San Francisco”.

“È un miracolato, Di Battista? Oppure sa approfittare di standard giornalistici che consentono a firme molto più di lungo corso della sua di superare impuniti la vergogna del plagio; di coccolare il proprio pubblico unicamente a base di tweet al vetriolo, e a testate celebrate di sgraffignare i contenuti dalla Rete e spacciarli come propri, coprire gaffe e strafalcioni con l’oblio, di non ammettere gli sbagli di fronte ai lettori, e soprattutto di dare credito e spazio infinito a una serie di firme che hanno perso di vista la realtà?”


Alessandro Di Battista, volevo scrivere a lui. Della sua violenza e del suo niente. Il primo tentativo è naufragato conto la consapevolezza che contro gli insulti l’unica risposta è il silenzio. Ma non era solo quello ad allarmarmi. 
Il M5S l’ho frequentato per qualche tempo, abbandonato in fretta dopo lo streaming con Bersani nel 2013. 
Di Battista lo conobbi poco dopo, quando toccò a lui divenire capogruppo, e subito mi diede l’impressione di essere un agitatore. Nell’arco di pochi giorni presentò l’impeachment per Napolitano, occupò i banchi del governo, riuscì a far passare per inaudita violenza di carattere sessista uno spintone ad una collega, i suoi interventi erano principalmente sceneggiate a favore delle telecamere. Nulla di nuovo sotto il sole, per carità…

A ridosso delle ultime elezioni annunciò convintamene che non si sarebbe ricandidato per andare in sudamerica. Ingenuamente pensai “chissà che io possa leggere qualcosa di interessante dai suoi reportage”. 
Qualcosa di interessante. E qui arriva la vera e propria nausea di un metodo, il metodo Grillo, che veramente salta all’occhio di chi ha un po’ di dimestichezza sia con lo scetticismo, sia con la scrittura. L’articolo di Forbes citato sopra mi ha aiutato a fare un po’ di ordine tra reportage, video reportage, videomessaggi, dirette e post, e darmi una pista che avevo colto ma non definito. 
I reportage, ne ho letti 4 su 5, tutti uguali, cambia solo l’ambiente. Non c’è un riferimento alla cultura che sta dietro all’EZLN, così come dietro alla Santa Muerte; non c’è un numero, un dato, una percentuale riportata da un dato bibliografico. Soprattutto è inquietante che nei suoi reportage non ci sia un nome, una storia, una stretta di mano. 


““Il primo ad avermi deportato è stato Obama. Poi anche Trump due mesi fa. Ora aspetto il momento giusto per saltare un’altra volta. Dall’altra parte ho il mio lavoro e la mia famiglia, non mi importa nulla del muro”. 
È quel che mi ha detto un uomo in un hotel per migranti a Mexicali, la capitale dello Stato messicano della Bassa California.”


Che lavoro faceva l’uomo senza nome e senza volto? Quanti anni aveva? Da cosa fuggiva? Non è dato saperlo. Come non è dato sapere nessuna delle fonti da cui trae i pochi dati presenti nei pezzi. Non racconta nemmeno storie, semplicemente racconta quello che vede corredandolo di qualche ricerca (parziale) su Wikipedia. Forse per sottolineare la certezza del passato e la precarietà del presente. Eppure credo che la speranza nel nuovo e nel cambiamento che lui vaticina si costruisca a partire da basi differenti.
In contemporanea ai reportage, escono dei videomessaggi e delle dirette: ne ho visto un paio. Nel primo un Dibattista sorridente e ostentante stanchezza risponde ai followers con la consorte al suo fianco. Tra una battuta e l’altra, ci tiene ad insultare “bonariamente” Emiliano, colpevole di far parte del PD. Di questo primo video mi hanno colpito l’assoluta vacuità degli argomenti trattati, dal fatto che uno deve tenere il bambino mentre l’altro fa la doccia, ai giochi con cui gioca il bambino. Tutti e due ostentano serenità e maglietta bianca vagamente inquietante. Una padella in primo piano sulla tavola rende il tutto molto casalingo e familiare. Quando lui lancia un proclama, lei annuisce. Quando lei parla, lui ha la faccia stanca. 
Un secondo video prende avvio da una campagna di informazione verso di lui, un volantino in cui in lingua spagnola si avverte di “non dare ospitalità a questa persona, si finge cooperante ma è un attivista di estrema destra”. E di nuovo una salva di insulti verso la sinistra e un non meglio precisato “articolo di Repubblica”: frattaglie della sinistra, e lo dice pure “con tristezza”.
I commenti a questi documenti sembrano scritti con un calco cui vengono sostituite di volta in volta le parole: Grande Dibba, volevo sentirtelo dire!, Torna in Italia, abbiamo bisogno di te!. Il dubbio sui bot qualche volta è legittimato. 
I pochi commenti che dissentono, anche espressi in tono civile, vengono annichiliti con risposte del calibro “vi rode”, “vi estinguerete”, “io non sono grillino, ma mi piace vedervi soffrire e annaspare”. 
Infine, i post: basta leggere qualche messaggio e vedere qualche video per scoprire che da furbacchione qual è, l’ex deputato se li impara a memoria e li ripete nei videomessaggi. “Il fascismo in Putin che non è fascismo, il fascismo che non è nelle bottiglie di vino nominato “il balilla”, “figlio della lupa”, “avanguardista”, il fascismo che è solo un’ossessione della sinistra morente”. Nessun richiamo alla Resistenza, nessun richiamo alla condivisione con cui è stata promulgata in Italia la Costituzione Repubblicana.
Ho avuto addirittura l’impressione che certi termini siano volutamente “sbagliati” per andare incontro all’elettorato e sembrare “uno di noi”. O forse i suoi testi sono scritti dallo stesso personal coach. Mi colpì un post di Grillo in cui -reduce da una campagna elettorale in Sicilia- scriveva “ho ingoiato arancini per un mese”: perché proprio “ho ingoiato” e non “mi sono abbuffato”, o “ho avuto modo di apprezzare gli arancini, anche troppo!”. No, proprio “ho ingoiato”, che denota mancanza di gratitudine ed apprezzamento. 
Si può facilmente immaginare che per chi segue assiduamente il personaggio proclami, slogan e reportage (che alla fine dei conti non sono altro che proclami travestiti) difficilmente vengono distinti, ma finiscono in un unico calderone da sbattere in faccia a quella parte di società che prova ad argomentare. 

Renzi si è messo da solo in una situazione politica indifendibile, ma quando parla di “resistenza civile” andrebbe quanto meno ascoltato. Andrebbe ascoltato anche e soprattutto da quei giornalisti che, dopo essersi presi delle “puttane” e dei “pennivendoli”, anziché proclamare uno sciopero ad oltranza fino alle scuse ufficiali degli interessati, rispondono scompostamente con altri insulti o ne chiedono giustificazione ad esponenti del governo che fino a ieri sedevano a Montecitorio gomito a gomito con Di Battista. Ed offrono il fianco ad altre critiche, lasciando a Di Battista onori (tanti) ed oneri (molti meno) delle proprie esternazioni. Che però galvanizzano un elettorato sempre più entusiasta delle parolacce e sempre più inconsapevole di cosa significhino democrazia e confronto. 







*Per quanto possa essere possibile entrare nel merito del nulla.

domenica 5 agosto 2018

Amazzonia, 2012

Può essere che il buon Dio si dimentichi di un posto isolato e difficile, unicamente perchè qualcuno possa ricordarsene e farne un luogo "baciato dalla provvidenza"? 
Mentre scrivo queste righe -settembre 2012- sono in Ecuador, arrivato l'anno scorso con un progetto di volontariato. Sono appena rientrato nella città di Macas dopo essere andato a andare a trovare un mio concittadino, missionario salesiano da 59 anni. Sapevo che aveva imparato l'Achuara e codificato l'alfabeto, che aveva combattuto con le autorità peruviane per avere un'educazione bilingue. Sapevo che era riuscito a tradurre il Nuovo Testamento, lavoro che poi è servito anche ai cristiani di confessione evangelica. Ma non sapevo fino a che punto si fosse spinto in questa opera di salvaguardia della cultura e della lingua Achuar.
Nato a Schio -VI- nel 1932, a 21 anni parte per l'Ecuador, viene ordinato sacerdote in Colombia nel 1953 ed inizia così la sua missione, prima in Ecuador e poi in Perù.
Così, senza sapere bene il perchè, il 30 luglio sono partito da Macas, direzione Wasak'entsa, missione salesiana a mezz'ora di aeroplano, Lunedì. Il sabato riesco a mettermi in contatto, via VHF, con Yankuam: il nome indigeno lo ha scelto in contrapposizione alla contaminazione della lingua e della cultura. Nella settimana seguente non ho fatto altro che camminare per raggiungerlo. Il 14 agosto arrivo finalmente all'incontro tanto atteso: è in corso una riunione di indigeni con un funzionario di un'organizzazione che ha in progetto la promozione di una selvicoltura più sostenibile, compatibile con l'estrazione di beni di consumo e allevamento. Ad un certo punto il relatore se ne esce con un "cincuenta por cincuenta". Al che domando al Padre "ma non hanno i numeri?" Lui interrompe prontamente la riunione per riprendere -bonariamente- il relatore, spiegandogli che i numeri sono stati inventati in epoca recente in lingua achuar, facendo riferimento al numero delle ossa di alcuni pesci, o alle foglie di alcuni alberi. 

Il giorno dopo, in ora antelucana, c'è la messa: siamo davanti ad un capolavoro di spiritualità e cultura. Per celebrare il rito i missionari locali si mettono l'Itip, tipica gonna maschile, si cingono il capo con una corona di piume di tucano, si dipingono il volto come gli indigeni... tutte usanze che, senza una guida forte che si preoccupi di mantenerle vive, si sarebbero semplicemente perse.
Il rito eucaristico, se celebrato tale e quale è fuori dalla selva, non troverebbe un significato preciso. Darsi la mano, o flagellarsi il petto con il pugno sono segni che hanno un senso nella culla del cristianesimo, l'Europa: ecco quindi il bere tutti assieme da un'unica ciotola la loro bevanda come "segno di pace", o lavarsi le mani per chiedere il perdono all'inizio della liturgia. Ogni benedizione è accompagnata dal tipico soffio che dà forza; l'assoluzione è un "aspirare e sputare via, lontano" il male. Dio prende il nome della loro antica divinità, Arutam, e presiede anche gli ancestrali riti dell'ayahuasca e del tabacco, atti in cui il potere allucinogeno di queste piante -sacre e magiche- aiuta, come viaggio iniziatico, a prendere decisioni importanti. Potrei continuare a lungo con aneddoti del genere.
Nei lunghi momenti che ho avuto per parlare con Yankuam, ho scoperto che è stato fatto un grandissimo lavoro per evitare che l'impatto della fede cattolica fosse lo stesso, troppo spesso disastroso, che nel corso della storia hanno avuto le missioni cristiane.
Ci si può domandare se "contaminare" questa cultura con il cristianesimo sia stato un bene o un male: Yankuam non ha fatto altro che applicare uno dei precetti del Vangelo, "Andate e predicate" avendo in questo la sensibilità di non imporre riti, simboli ed archetipi che i locali non avrebbero potuto capire. Gli Achuar non si danno la mano, per questo la pace è un "incontro collettivo" con le donne che offrono le coppe di questa "birra" di manioca. 

Questo popolo non ha dei capi, ad eccezione delle varie comunità, e queste sono più di 200. La presenza di una guida, anche e soprattutto morale e spirituale, che dia memoria storica delle tradizioni e della lingua, è stata determinante per non ridurre la società del popolo Achuar ad un'estensione della società "non indigena" al di fuori della selva amazzonica. 
Imprese di estrazione (legname, petrolio e non solo) e maggior facilità di spostamento hanno sconvolto nell'arco di pochi decenni usanze, lingua e tradizioni ancestrali di questo popolo, che alle tre di mattina si sveglia per bere del tè e... vomitarlo. Del resto, con una certa logica, come ci si lava la faccia ci si può anche lavare lo stomaco. In un mese a contatto con questo popolo non ho mai visto una danza tipica, le feste sono animate dalle noiose nenie di musica nazionale in lingua spagnola. Una comunità mi ha chiesto aiuto per "due altoparlanti marca Sony, una console e un generatore" per le feste rituali. Inutile dire che ho accettato la lettera ma non darò seguito alla richiesta.

Si può forse sperare ed immaginare che, con la minaccia di una scomparsa sicura e definitiva, qualche indigeno di larghe vedute decida di curiosare in quella bisaccia sapientemente cucita da Yankuam, con tutta la storia e le tradizioni del popolo Achuar, le cui cuciture e cerniere sono il suo impegno di missionario e la sensibilità davanti alle culture e alle lingue. 
Davanti all'umanità intera, saprà dimostrare che se si perdono gli Achuar, non si perdono solo quei peruviani originali che vivono isolati nelle capanne nel bosco dipingendosi la faccia con l'achote vomitando ogni mattina il tè di wayussa, ma tutto un mondo fatto di cultura, lingua e artigianato.


Foto tratta da https://associazionepadresilviobroseghini.files.wordpress.com/

*Padre Luigi Bolla è stato colpito da ischemia il 7 gennaio 2013 ed è spirato il 6 febbraio dello stesso anno nell'ospedale in cui era stato ricoverato a Lima (Perù).